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Home Società Sanità

Lo smart working non fa rima con i concorsi pubblici

Antonella Trentini di Antonella Trentini
04 Maggio 2021 07:42
in Sanità, Società
Tempo di lettura: 4 minuti
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Draghi nega il bonus baby-sitting a chi è in smart working
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Il rapido espletamento di concorsi (in breve tempo il Ministro assicura di assumere 500mila dipendenti pubblici), e, dunque, la rapida immissione di migliaia di neoassunti nelle strutture pubbliche oggi interessate da percentuali elevatissime di smart working, rischia di vanificare la proficua formazione e il passaggio di consegne fra dipendenti. In altre parole: percentuali elevate di dipendenti al lavoro da casa confliggono con l’utile inserimento di nuovi dipendenti. 

Se smart working significa “lavoro intelligente”, inserire migliaia di nuovi dipendenti in uffici deserti è per lo più unsmart, con riflessi nefasti sul working, sulla formazione e sull’inserimento dei neoassunti. A meno che gli smart worker non desiderino portare a casa i neo colleghi da inserire e formare, giocoforza il meccanismo va rivisto.

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Di ciò deve essersi reso conto il Ministro Brunetta, atteso che nel Consiglio dei Ministri del 29 aprile 2021 è stato approvato il “decreto proroghe” con cui il Governo dice addio alla soglia minima del 50% per lo smart working nella pubblica amministrazione. Dal comunicato stampa del portale del Ministero emerge che il testo del decreto non prevede più una quota per il lavoro da casa, prima fissato nella soglia del 50% introdotta a causa della pandemia dal Ministro Dadone.

E’ stabilito che fino alla definizione della disciplina del lavoro agile nei CCNL del pubblico impiego, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, le amministrazioni pubbliche potranno continuare a ricorrere alle modalità semplificate relative al lavoro agile, ma sono liberate da ogni rigidità percentuale, al fine di attestarsi a partire dal gennaio 2022 sulla quota del 15% aziendale, ben distante dallo spopolamento selvaggio previsto dalla precedente titolare del Ministero della Pubblica Amministrazione, che fissava nel 60% la quota minima dei dipendenti che avrebbe potuto avvalersi dello smart working.

Non si nega che l’emergenza sanitaria piombata improvvisamente nelle nostre vite – lavorative e personali – ha portato cambiamenti di varia portata, i cui lati positivi non vanno dispersi, ma è altrettanto vero che nel quotidiano lavoro della pubblica amministrazione più che lo smart working è utile la flessibilità.

Se è vero, come lo è sicuramente, che un fattore di rischio per i contagi è negli spostamenti in specie con i mezzi pubblici – fermo restando che la popolazione vaccinata aumenta quotidianamente con il rapido raggiungimento di quella immunità di gregge salvifica – non è lo smart working che ci preserva, dal momento che anche lavorando solo un giorno in presenza negli orari canonici, sui mezzi pubblici si rischia il contagio. 

Ecco allora che è molto più smart working utilizzare la flessibilità, che consente di diluire le persone che si spostano con mezzi pubblici per raggiungere le sedi di lavoro. L’introduzione di “turni” come già avviene in molti servizi – si pensi alla Sanità, alla Sicurezza, talvolta alla Scuola – è molto più coerente con l’abbassamento dei contagi da assembramenti, con le necessità della cittadinanza, con le fasi di riavvio delle attività (produttive, commerciali, ecc.), e, soprattutto, si coniuga con le necessità di formazione dei nuovi assunti a seguito dell’intensificazione dei concorsi con la piena autonomia organizzativa degli uffici.

I Comuni, la Giustizia, oltre alle pubbliche amministrazioni già citate, dovrebbero organizzare da subito il lavoro in turni mattutini e pomeridiani del personale, così da mantenere l’obiettivo di presenze fisiche del 50 % a fronte di un lavoro reso al 100%. Cosa che da casa non è.

D’altra parte lavorare in smart non significa declinare il lavoro nel solo senso verticale (vale a dire stare a casa l’intera giornata); è smart working anche (e soprattutto) l’organizzazione orizzontale del lavoro (mattino in ufficio e pomeriggio da casa e viceversa), molto più compatibile con la flessibilità del lavoro, la formazione ed inserimento dei giovani neoassunti e dei tempi di vita.

L’esperienza di questo anno e mezzo di emergenza, pur nella risposta che si è riusciti via via a rendere, ha tuttavia mantenuto enormi difficoltà di restituzione di servizi, soprattutto in determinati settori che, già falcidiati da carenze di personale, si sono trovati sguarniti anche dei dipendenti e tecnici in servizio.

Si pensi agli Uffici Edilizia dei Comuni, che con il poco personale al lavoro prevalentemente da casa, faticano a dare appuntamenti tempestivi ai professionisti, così rallentando ulteriormente le pratiche necessarie alla cittadinanza, con ripercussioni ulteriori sulla già fiaccata economia; o gli uffici anagrafici, ove un normale documento di identità richiede oggi tempi esageratamente dilatati. 

Ancora. Si pensi al settore Giustizia ove, in un sistema già notoriamente claudicante e lento, la pandemia ha aggravato la situazione tra udienze celebrate con il contagocce, rinvii e personale di cancelleria a casa. Se nella fase del lockdown i procedimenti sono stati sospesi, dalla riapertura è stato possibile trovare delle soluzioni alternative, non sempre ottimali e che hanno frenato la ripartenza. Un altro grande problema è costituito dall’enorme quantità dei processi pendenti. L’uso dello smart workinginteso come lavoro flessibile sarebbe, allora, quanto mai “intelligente”: svolgere udienze in turni ante o post meridiani, con relativo personale – magistrati ed amministrativi – presenti al mattino o al pomeriggio, gioverebbe alla speditezza dei processi, allo scaglionamento nella mobilità delle persone, alla formazione e inserimento dei neoassunti, che in uffici vuoti non imparano alcunché.

Ci siamo disabituati alla normalità, a cui dobbiamo ritornare, in piena sicurezza, ma con slancio e fiducia, avendo ben presente che smart working non fa rima con concorsi.

Tags: Pubblica AmministrazioneRenato BrunettaSmart working
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