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Home Società

Insultare la casta? Non sempre si può

Alessandro Alongi di Alessandro Alongi
25 Aprile 2022 05:44
in Società, Tech
Tempo di lettura: 3 minuti
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Insultare la casta? Non sempre si può
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Offendeva la reputazione di un politico sfruttando i social network, condividendo sul proprio profilo fotografie pubblicate sulla pagina ufficiale del medesimo e commentandole con frasi palesemente offensive del suo onore e decoro costituisce reato, quale quello di diffamazione aggravata.

A spezzare una lancia contro la vituperata classe politica è stato, qualche giorno fa, il Tribunale di Vicenza che, con la Sentenza della sezione penale n. 863/2021, ha statuito la capacità lesiva di un post all’immagine di un personaggio pubblico.

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Il fatto in argomento prende avvio nel dicembre 2015, quando il nostro politico fu avvertito dalla madre che su Facebook erano apparsi diversi post che lo riguardavano e che riportavano commenti poco gratificanti sulla sua attività politica e imprenditoriale, pubblicati dall’imputato: in particolare, si trattava di post pubblicati originariamente dal politico stesso sulla propria pagina ufficiale da lui creata e gestita, commentati pubblicamente oppure condivisi dall’imputato sulla propria pagina personale con l’aggiunta di frasi dal contenuto allusivo (come “bufala vivente”) o oltraggioso (come “coglione” e “merda”). Tale condotta è proseguita poi fino ai primi mesi del 2016.

Innanzitutto, il Tribunale vicentino si è trovato di fronte ad un busillis, ovvero stabilire la propria competenza territoriale per un reato che nasce e sviluppa su Internet. Per i giudici della provincia veneta, nell’ipotesi in cui il delitto di diffamazione sia stato perpetrato utilizzando la rete Internet (luogo che dove, di per sé, è impossibile stabilire con esattezza il luogo di consumazione del reato) è possibile individuare quantomeno per presunzioni quello in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato come dato informatico, per poi essere immesso in rete. Da questo ragionamento può desumersi la competenza territoriale, che va determinata in relazione al luogo predetto, in cui è avvenuta una parte dell’azione illecita (sul punto esiste anche il conforto della Cass. pen., Sez. 5, sent. n. 31677 del 19/05/2015).

Stabilita la competenza, i giudici hanno esaminato il cuore della vicenda – ovvero il tenore delle frasi giudicate offensive – e, anche qui, non ci sono stati molti dubbi: per il loro significato letterale e per il contesto in cui sono apparse – dal momento che sono state apposte a commento di contenuti pubblicati su pagine pubbliche seguite da migliaia di persone – le espressioni in questione hanno rivestito certamente un’efficacia lesiva della reputazione del nostro malcapitato politico, assumendo una valenza significativamente diffamatoria.

Volendo stabilire, infine, la sussistenza del requisito della “comunicazione con più persone,” (necessario affinché sia interato il reato di diffamazione), per il Tribunale vicentino bisogna considerare che, ai fini dell’integrazione del delitto in parola, è possibile presumerne la sussistenza qualora il messaggio diffamatorio sia inserito in un sito Internet o in un social network – come nel caso di specie – trattandosi di un mezzo che per sua natura è destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti, a nulla rilevando l’astratta e teorica possibilità che esso non sia letto da alcuno (come stabilito, peraltro, da Cass. pen., Sez. 5, sent, n. 16262 del 4/4/2008).

Ma, come se non bastasse, per i giudici nel caso di specie vi è stata anche un’aggravante: infatti, come precisato da recente giurisprudenza di legittimità, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una pagina di Facebook integra l’ipotesi di un’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità“ diverso dalla stampa, poiché la condotta illecita è stata potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (così Cass., pen., sez. 5, sent. n. 13979 del 25/1/2021); da qui una multa di 650€, oltre ad un risarcimento di 1.000€ al politico (costituitasi nel frattempo parte civile) e il rimborso di 1.700€ di spese legale. Caro costò un post scritto d’impeto.

Tags: internetreputazioneSocial network
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Alessandro Alongi

Alessandro Alongi collabora nell’ambito del modulo di “Diritto della rete” all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, è specializzato in Relazioni istituzionali e Diritto parlamentare e attualmente si occupa di tematiche giuridiche e regolamentari presso l’Organo di vigilanza sulla parità di accesso alla rete di TIM, oltre a svolgere attività di ricerca nell’ambito del Diritto dell’innovazione, del quale è autore di diversi studi e approfondimenti.

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