Una eventuale riforma fiscale andrebbe finanziata in deficit e, da pressoché sempre, ridurre le tasse col disavanzo è come osservare un pessimo baro fare giochi di carte: il trucco c’è e si vede pure. Insomma: flat tax sì o no?
C’è stata un’epoca, neanche troppo remota, nella quale internet muoveva i suoi primi incerti passi, l’euro era un’idea – un po’ più strutturata dalla Libra facebookiana, ma comunque lontana dalle tasche dei cittadini – e la televisione era ancora indubbiamente il più importante mezzo di diffusione di massa. In quella fase storica di passaggio tra i due millenni, nella suddetta televisione, un figuro era il dominus indiscusso, regista e attore protagonista, allenatore e centravanti di sfondamento e rispondeva al nome del quattro volte presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere era infatti uso presenziare pressoché ovunque, dalle tribune politiche ai programmi del mattino, dalle trasmissioni sportive a quelle di spettacolo. Un palcoscenico era però il suo preferito come strumento di amplificazione istituzionale: il regno di Bruno Vespa, ovvero Porta a Porta.
Ed era proprio la longeva trasmissione della seconda serata di Rai1 teatro delle migliori performance di Berlusconi, una su tutte è stata in grado di entrare direttamente nei libri di storia contemporanea: la firma del contratto con gli italiani.
Si trattava di un documento, del tutto unilaterale, dove il Cavaliere si impegnava, nel caso di vittoria alle imminenti elezioni, di rispettare cinque punti con i suoi concittadini, tutti più o meno attinenti a un nuovo riscatto economico italiano. Nel dettaglio si trattava dell’abbattimento della pressione fiscale, dell’innalzamento delle pensioni minime, della diminuzione della disoccupazione, dell’apertura di nuovi cantieri e della riduzione dei reati con l’introduzione del poliziotto di quartiere.
Berlusconi riuscì anche a vincere quelle elezioni e governò per cinque anni senza raggiungere nessuno di quegli obiettivi ma questa è, come si suol dire, un’altra storia. Negli anni successivi seguirono anche repliche sbiadite, incapaci però di eguagliare la portata del primo contratto, quello del 2001.
Ricordi di altri tempi, buoni solo ad aprire una spirale nostalgica, di cosa poi, non è meglio indagare.
Eppure l’effetto amarcord deve aver contagiato anche quello che all’epoca era un giovane militante della Lega Nord (le coordinate geografiche erano ancora in auge), ora figura di peso del governo e della scena politica tutta, ovvero Matteo Salvini.
Proprio negli scorsi giorni, ospite di Quarta Repubblica su Rete4, il leader della Lega non ha esitato a siglare un impegno per l’introduzione della flat tax a partire dal 2020. In studio Nicola Porro anziché Bruno Vespa e al posto del banchetto con pennino e calamaio da scuola gentiliana, un tablet con firma digitale. Cambiano i tempi ma la sostanza evidentemente no.
E qui finisce la narrazione, per certi versi romantica, e si entra nell’analisi economica. La flat tax, così come è stata pensata, disintegra l’idea stessa di imposta progressiva sul reddito. In altre parole non è uno strumento in grado di garantire equità sociale o redistribuzione delle ricchezze. E’ ancora meno capace di portare maggiori entrate all’erario – è l’Irpef la prima imposta per gettito e oltre l’80% delle entrate arrivano da lavoratori dipendenti e pensionati tra i 28mila e i 50mila euro di reddito – polverizzarla senza ritegno vorrebbe dire mettere in difficoltà le casse dello Stato.
La flat tax è ancor meno in grado di contribuire alla lotta all’evasione fiscale, considerato che nessuna riforma fiscale è stata e sarà mai in grado di contrastare il lavoro nero e il troppo denaro contante in circolazione, senza adeguati controlli. Inoltre, anche a voler vedere della bontà negli intenti della flat tax, non ci sono le coperture per finanziarla, considerato che nella migliore delle ipotesi servirebbero 15 miliardi di euro. Quindi la riforma fiscale andrebbe finanziata in deficit e, da pressoché sempre, ridurre le tasse col disavanzo è come osservare un pessimo baro fare giochi di carte: il trucco c’è e si vede pure. Si otterrebbe un cortocircuito molto lampante: il deficit diventa debito, gli interessi di questo si sommano a quelli già esistenti – oltre 65 miliardi di euro annui – e il tutto deve esser recuperato dallo Stato con nuove tasse.
Per un Paese che ha trascorso in recessione quasi un terzo dell’ultimo decennio, assiste a vere e proprie emorragie di risorse intellettive, con oltre 100mila italiani emigrati all’estero nell’ultimo anno e vede il potere d’acquisto delle famiglie, anche quando in crescita, tradursi in risparmi e non in consumi, proporre riforme fiscali senza le adeguate coperture non pare una grande trovata.
Ma si sa, la politica è fatta dalla stessa sostanza delle promesse infrante e, al di là di citazioni pasticciate quello a cui si assiste anche sul terreno di gioco assai insidioso dell’economia, magari non è altro che l’ennesimo episodio del perpetuo scontro intestino nella maggioranza di governo.
Oppure c’è dell’altro, c’è una volontà più o meno recondita da parte di Salvini, ormai riferimento indiscusso del centrodestra italiano, di omaggiare colui che per primo ha guidato per oltre un ventennio le medesime forze politiche. Una celebrazione, dopo le distanze coltivate nell’ultimo anno, verso l’antico maestro, ripercorrendo alcuni – magari non proprio tutti – dei passi più noti.