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Home Società Tech

Quando un like tradisce il razzista (e spedisce in galera)

Alessandro Alongi di Alessandro Alongi
13 Marzo 2022 06:00
in Tech
Tempo di lettura: 2 minuti
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Quando un like tradisce il razzista (e spedisce in galera)
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Un like su un post antisemita pubblicato su Facebook può essere ritenuto un grave indizio di reato di istigazione all’odio razziale. A dirlo non è il Black Lives Matter, ma la Suprema Corte di Cassazione che, con una recente sentenza (Cass. Sez. I Penale, Sent. 9 febbraio 2022, n. 4534), ha respinto il ricorso contro una misura cautelare disposta dal GIP a carico di un imputato accusato di spargere odio sul web.

Il monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social del soggetto in questione (Facebook, VKontacte e WhatsApp) acquisite per mezzo di specifiche perquisizioni, aveva disvelato non solo la creazione di una comunità Internet virtuale caratterizzata da una chiara vocazione ideologica di estrema destra neonazista avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee online fondate sull’antisemitismo, il negazionismo, l’affermazione della superiorità della razza bianca nonché incitamenti alla violenza per le medesime ragioni.

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Dalla medesima attività investigativa era emerso che l’imputato si era posto ripetutamente in contatto con tali piattaforme social consentendo, attraverso il click sul bottoncino “like”, il rilancio di post e dei correlati commenti dal contenuto negazionista e antisemita. Tanto basta per creare un legame forte tra l’indole del soggetto e le sue idee, manifestate appunto con l’apprezzamento dei contenuti su Facebook.

La linea difensiva scelta dall’imputato è stata quella di riaffermare come quel “mi piace” non consisteva in un elemento utile degno di affibbiare la patente di antisemita, non travalicando questi “apprezzamenti” i confini della libera manifestazione del pensiero. L’inserimento di tre soli “like” (a tanto ammontavano, infatti, i pollici in su sulla quale l’accusa si basava), per la difesa costituivano, al più, un’espressione di gradimento, e non elementi dimostrativi dell’appartenenza al gruppo, né tantomeno la condivisione degli scopi illeciti.

Già prima dell’intervento della Cassazione, il Tribunale del Riesame aveva avuto modo di sottolineare come la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche di Facebook, già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti. Sono le interazioni, infatti, che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L’algoritmo scelto dalla creatura di Mark Zuckerberg per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal “like”.

E l’algoritmo, che non guarda in faccia a nessuno, impedisce in questo caso che si aprano le ali della libertà.

Tags: Facebook
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Alessandro Alongi

Alessandro Alongi

Alessandro Alongi collabora nell’ambito del modulo di “Diritto della rete” all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, è specializzato in Relazioni istituzionali e Diritto parlamentare e attualmente si occupa di tematiche giuridiche e regolamentari presso l’Organo di vigilanza sulla parità di accesso alla rete di TIM, oltre a svolgere attività di ricerca nell’ambito del Diritto dell’innovazione, del quale è autore di diversi studi e approfondimenti.

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