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Home Approfondimenti

Dossier LabParlamento / L’Italia e la questione israelo-palestinese dal fascismo ai giorni nostri

Giulio Viggiani di Giulio Viggiani
03 Ottobre 2025 22:54
in Approfondimenti, Esteri, Politica
Tempo di lettura: 8 minuti
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Dossier LabParlamento / L’Italia e la questione israelo-palestinese dal fascismo ai giorni nostri
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Verso la metà degli anni ’30, l’Italia fascista fu il primo Stato europeo a sostenere concretamente la lotta di liberazione del popolo palestinese dal mandato britannico e l’opposizione al progetto di Ben Gurion di creare un Focolare Nazionale ebraico in Terra Santa[1]. 

Dal 1936 al 1938, Benito Mussolini finanziò per quasi due anni la prima intifada palestinese con l’obiettivo di aprirsi un varco di infiltrazione politico-economica nel Vicino Oriente e contendere alla Gran Bretagna il primato nel Mediterraneo, cercando di sostituirla nel suo ruolo di potenza mandataria in Palestina, assunto in seguito al primo conflitto mondiale, o di ottenere, nel peggiore dei casi, l’internazionalizzazione del mandato. Se avesse raggiunto questo ambizioso traguardo, l’Italia si sarebbe impegnata a risolvere la questione palestinese creando due entità statali distinte e separate: una più estesa, a nord di Gerusalemme, da assegnare agli arabi, e l’altra, a sud della città santa, per gli ebrei. 

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Il Gentlemen agreement, sottoscritto il 16 aprile 1938 tra l’Italia e la Gran Bretagna, interruppe, seppure soltanto per due anni, la tensione fra i due Paesi e costrinse Mussolini a sospendere il finanziamento dell’intifada relegando in soffitta il piano di spartizione della Palestina.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia dedicò grande attenzione al mondo arabo. I governi centristi cercarono di riconquistare un ruolo attivo nella regione, approfittando della propria posizione di “ponte” naturale tra il Medio Oriente e l’Europa. Sin dall’Unità, l’Italia, con la politica coloniale, aveva tentato di beneficiare della vicinanza geografica all’area mediorientale per costruire una forte presenza politica ed economica nel Mediterraneo. Anche nel secondo dopoguerra, sebbene la politica estera italiana avesse una portata decisamente limitata nel contesto della crescente polarizzazione mondiale tra gli Stati Uniti e l’Urss, i governi che si succedettero continuarono a perseguire rapporti di buon vicinato con gli Stati rivieraschi del Mediterraneo. 

Dopo la perdita delle colonie africane, infatti, il nostro Paese dovette elaborare nuove strategie per mantenere la propria presenza nella regione. Tuttavia, in quegli anni l‘attenzione e la concentrazione italiane erano rivolte prevalentemente all’Atlantico e all’Europa. L’Italia, consapevole dell’importanza del vecchio continente per la politica estera statunitense, si adoperò per accelerare l’integrazione europea, avendo come priorità assoluta il riposizionamento tra le maggiori potenze nella sfera d’influenza americana.

Negli anni ‘50, l’Italia era troppo impegnata nel recupero della propria credibilità a livello internazionale e nella gestione delle dinamiche interne per formulare una strategia politica di ampio respiro in Medio Oriente. Era un Paese in fase di ricostruzione e, avendo perso la guerra, aveva l’esigenza di ricreare la propria immagine per poter essere considerato un alleato solido e credibile per gli USA nella NATO. Nello stesso tempo, era una Nazione chiave anche per gli interessi politici dell’Unione Sovietica e per i paesi del Patto di Varsavia, in quanto era considerata l’anello debole dell’Alleanza Atlantica per la presenza sul suo territorio del più grande partito comunista dell’Europa occidentale. 

La coesistenza di queste due spinte contrapposte influenzò profondamente le scelte politiche italiane nel corso della Guerra Fredda. Da un lato, la Democrazia Cristiana voleva dare priorità alle politiche pro-Europa e ad una politica estera basata sugli interessi atlantici. Dall’altro, diversi attori politici, economici e sociali stavano creando lobbies per un ruolo attivo nell’area del Mediterraneo. In particolare, le forze socialiste, i partiti laici e la corrente di sinistra interna alla DC erano convinti che il ruolo dell’Italia nel mondo arabo potesse contribuire alla nascita di una “terza via” rispetto alla dicotomia della Guerra Fredda.

Queste dinamiche – la necessità di garantire stabilità interna in una fase delicata della ricostruzione nazionale e il desiderio di riemergere come potenza politica ed economica di primo piano nell’area del Mediterraneo – condizionarono le politiche italiane verso il vicino Oriente con risultati non sempre lineari.

Sin dalla sua creazione, nel 1948, l’Italia tentò di stabilire solidi legami di amicizia con il neonato Stato di Israele. Tuttavia, secondo l’approccio del Partito Comunista italiano, favorevole alla causa araba, la lotta di liberazione palestinese non era solo una rivoluzioneanticolonialista, ma anche anticapitalista e antimperialista. L’esigenza di tenersi in equilibrio in un contesto internazionale così complesso contribuì a preservare il ruolo privilegiato della nostra Nazione sia come alleata del mondo arabo che come amica di Israele e il tentativo di perseguire una politica di equidistanza nei confronti della questione israelo-palestinese continuò a caratterizzare tutti gli anni ’50 e ’60. 

Durante la crisi di Suez del 1956, l’Italia ebbe un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto. Nonostante la decisione iniziale di rimanere neutrale, non solo condannò l‘invasione da parte di Francia e Gran Bretagna, ma si impegnò attivamente per giungere alla fine delle ostilità. Undici anni dopo, durante la guerra dei sei giorni nel 1967, il tentativo italiano di mantenersi equidistante rispetto alla questione arabo-israeliana portò ad un risultato del tutto inatteso. Mentre inizialmente il governo Moro rifiutò di condannare l’Egitto, dovette poi convergere verso il piano di pace americano, che ebbe ripercussioni negative sui rapporti economici italiani con i paesi arabi.

Mentre negli anni ’50 e ’60 c’erano stati solo timidi tentativi di giocare un ruolo attivo nella questione arabo-israeliana, negli anni ’70 l’Italia virò verso una posizione più decisamente filopalestinese. Sotto la guida dell’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, l’Italia promosse varie iniziative a favore della causa palestinese, come il sostegno alla partecipazione dell’OLP, guidato da Arafat, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974. In quegli anni, caratterizzati dal consociativismo tra DC e PCI, la politica filopalestinese dei governi italiani, oltre che da ragioni geopolitiche ed economiche, era fortemente influenzata dall’appoggio militare e finanziario della Stasi e del Kgb a tutti i movimenti di liberazione della Palestina e alla gran parte delle organizzazioni terroristiche comuniste di stampo marxista-leninista, loro alleate.

Questo sostegno aumentò negli anni ’80, quando la politica italiana, sotto la guida di Bettino Craxi e di Giulio Andreotti, divenne apertamente favorevole alla Palestina, a volte fino al punto di mettere a dura prova l’alleanza con gli USA e Israele. Come avvenne nel 1985, quando il governo Craxi rifiutò di concedere agli Stati Uniti l’estradizione dei dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro. Nel corso degli anni ’70 e ’80, l’Italia dovette anche far fronte all’intensificarsi delle attività delle forze palestinesi sul proprio territorio. 

La diplomazia nazionale mirava ad assicurare che la tensione tra i militanti palestinesi e i servizi segreti israeliani del Mossad non degenerasse all’interno dei confini nazionali. Con un patto segreto, conosciuto come “Lodo Moro”, stipulato nel 1973 tra il governo italiano e i rappresentanti dell’OLP nei giorni in cui infuriava la guerra del Kippur tra Israele ed Egitto e rivelato per la prima volta dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 2005, l’Italia assicurò ad alcuni gruppi palestinesi la libertà di coordinare e organizzare le attività sul proprio territorio in cambio della garanzia di non subire attentati sanguinari.

Di fronte alla feroce violenza del terrorismo arabo-palestinese, infatti, tutti i paesi colpiti dalle stragi e dai dirottamenti si adoperarono per stringere accordi segreti di non belligeranza con le fazioni della cosiddetta “resistenza palestinese” e con gli stati arabi sponsor del terrorismo internazionale (Libia, Iraq, Siria) al fine di mettersi al riparo da azioni terroristiche. Nemmeno questi sforzi, tuttavia, riuscirono a prevenire azioni armate e ad evitare l’uccisione di persone innocenti sul suolo italico. Nel novembre 1979, ad Ortona, un commando palestineseaccompagnato da tre militanti della sinistra extraparlamentare aderenti ad Autonomia Operaia, fu fermato dalle forze dell’ordine che sequestrarono i missili di fabbricazione sovietica nascosti nel convoglio. Il colonnello Stefano Giovannone, agente segreto italiano di stanza in Libano, addetto ai rapporti tra il nostro governo e i guerriglieri fedayn del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, riferì in diversi cablogrammi le minacce di imminenti attentati se non fossero stati liberati i membri del commando arrestato in Abruzzo. 

Due di questi dispacci riservati giunsero poche settimane prima della sanguinosa strage di Bologna del 2 agosto del 1980, di cui sono stati recentemente desecretati atti coperti da segreto di Stato, riaprendo concretamente la pista della matrice palestinese dell’eccidio. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 il gruppo palestinese di Abu Nidal condusse una serie di attacchi terroristici a Roma, all’aeroporto di Fiumicino nel 1973 e nel 1985 e alla Sinagoga nel 1982. 

Durante gli anni ’90, la politica filopalestinese italiana cominciò ad affievolirsi, ed iniziò un lento ma radicale cambiamento: la fine della Guerra Fredda causò la crisi lunga ed irreversibile del Partito Comunista, che aveva pesantemente condizionato la politica estera italiana, inducendo la sinistra a virare verso posizioni meno radicali, mentre i governi Berlusconi si schierarono apertamente dalla parte di Israele. 

L‘Italia compensò la tradizionale empatia per la causa araba con la costruzione di relazioni sempre più solide con Israele e con un pieno appoggio alle politiche statunitensi, tradizionalmente filoisraeliane. Questa tendenza si è ulteriormente rafforzata in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York e alla guerra contro il terrorismo islamico, condotta dagli Usa prima in Afghanistan e poi in Iraq. 

Dal 2022 con l’avvento del Governo Meloni, è evidente un riequilibrio ed un’evoluzione della posizione italiana nei confronti della questione israelo-palestinese. La forte alleanza politico-culturale e strategica con Israele è stata controbilanciata da una sapiente tessitura di rapporti con la Lega Araba, che si traduce in un’articolata proposta di risoluzione diplomatica del conflitto. 

La storica posizione sostenuta dall’esecutivo italiano dei “due popoli e due Stati”, con il riconoscimento della Palestina vincolato al disarmo totale e all’isolamento internazionale di Hamas, si colloca pienamente nella tradizionale linea seguita per decenni dalla politica estera italiana, coniugando sia l’esigenza di supportare Israele come unica democrazia in Medio Oriente, nell’ambito del più ampio disegno meloniano di unificazione del fronte occidentale, sia la necessità di tutelare gli interessi economici nazionali nell’area e verso i paesi africani, declinata con una sapiente strategia politico-diplomatica attraverso il Piano Mattei. 


[1] Questo è quanto emerge dall’analisi dei documenti – lettere, appunti, promemoria – dell’ufficio di coordinamento del ministro degli Affari Esteri italiano e di quelli contenuti nel «Carteggio del Servizio Informazioni Militari relativo a vari Stati», conservato presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. 

Tags: gaza
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