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Home Approfondimenti

Via libera al quorum “morbido”: il referendum tornerà di moda?

Alessandro Alongi di Alessandro Alongi
18 Gennaio 2019 08:29
in Approfondimenti, Governo, Parlamento, Società
Tempo di lettura: 3 minuti
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Referendum più facili con il sì del Movimento 5 Stelle in Commissione Affari costituzionali all’emendamento del Partito democratico che introduce il quorum del 25% per la validità dell’elezione. Adesso la parola all’Aula di Montecitorio

di Alessandro Alongi

Il Ministro per la democrazia diretta Riccardo Fraccaro (M5S) lo aveva già annunciato qualche mese fa e, adesso, tutto sembra pronti per realizzarsi: referendum propositivo, abolizione del quorum e leggi popolari a data certa potrebbero presto trovare spazio all’interno della Costituzione, in virtù dell’avvio spedito dei lavori della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati. Si inizia con la riforma del quorum referendario, contenuto nella proposta di legge attualmente in discussione. Se tutto verrà confermato già mercoledì prossimo [oggi] il testo approderà nell’emiciclo di Montecitorio per la discussione generale, che sembra però tutt’altro che in discesa.

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Il referendum è una forma di partecipazione popolare previsto dall’art. 75 della Costituzione. Secondo il medesimo articolo, due sono i requisiti per la validità del referendum: uno relativo alla partecipazione e l’altro relativo alla deliberazione: la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

Nella versione originaria del ddl di riforma le maglie di questi due requisiti si allargano sino a sparire: «La proposta sottoposta a referendum è approvata se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi». Nessun quorum è previsto, né sotto il punta di vista della partecipazione, né tantomeno della deliberazione: o dentro o fuori, indipendentemente dal numero degli elettori che si recherà alle urne e a prescindere dal numero di “SI” o di “NO” che la proposta sarà capace di raccogliere.

Una scelta molto discussa, ma difesa a spada tratta dallo stesso ministro Fraccaro: «L’assenza del quorum strutturale è garanzia di una maggior partecipazione perché le forze politiche non possono ricorrere a pratiche astensionistiche, dovendo mobilitarsi per sostenere le rispettive ragioni». Niente più inviti a disertare le urne, come il famigerato «Andate al mare!» di craxiana memoria.

Il primo niet giunge, però, dalla stessa maggioranza di governo, con la Lega contraria alla “libertà di quorum”, e decisa a mettere un’asticella partecipativa («Non possiamo permettere che in 10 si svegliano la mattina e decidono per tutti» ha tuonato Matteo Salvini): da qui l’emendamento volto a introdurre una soglia del 33% per la validità della consultazione, (successivamente ritirato). Preoccupate le opposizioni, che intravedono nell’assenza del quorum una minaccia per il Parlamento, con la volontà popolare pronta a ribaltare le decisioni delle camere grazie ad una manciata di voti.

Alla fine l’ha spuntata il Partito Democratico, con il suo rappresentante in Commissione (nonché costituzionalista) Stefano Ceccanti,  che è riuscito a mettere tutti d’accordo, introducendo un quorum non sugli aventi diritto ma sui voti favorevoli. Ed è così che, nella seduta di giovedì scorso, la Commissione ha trovato la quadra: il referendum sarà valido indipendentemente dal numero dei partecipanti, ma a condizione che i “SI” o i “NO” siano superiori a un quarto degli aventi diritto al voto, ovvero a 12,5 milioni di elettori, base minima adesso per la validità referendaria.

Se le norme verranno definitivamente approvate (non solo dalla Camera, ma anche dal Senato, e per due volte ciascuno, essendo una modifica alla Costituzione) i futuri referendum potranno sperare di avere maggiore successo rispetto agli antenati: solo per citare l’ultima competizione abrogativa, quella relativa alla durata dei permessi delle trivelle in mare, nonostante i “si” furono quasi 13 milioni (l’85%), si recarono alle urne 15 milioni di italiani, ovvero il 32% degli aventi diritto, troppo pochi, facendo così finire il referendum nel cestino (insieme a 300 milioni di euro di costi). Domani tutto ciò potrebbe non avvenire più, ma allora fu un vero crepaquorum.

Tags: quorumReferendum
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Alessandro Alongi

Alessandro Alongi collabora nell’ambito del modulo di “Diritto della rete” all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, è specializzato in Relazioni istituzionali e Diritto parlamentare e attualmente si occupa di tematiche giuridiche e regolamentari presso l’Organo di vigilanza sulla parità di accesso alla rete di TIM, oltre a svolgere attività di ricerca nell’ambito del Diritto dell’innovazione, del quale è autore di diversi studi e approfondimenti.

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