Tutti parlano (a vanvera) di burnout: ciascuna categoria professionale afferma di esserne colpita (inclusi dirigenti scolastici, collaboratori e DSGA), mentre alcuni capi d’istituto attuano una prevenzione a base di questionari anonimi “creativi” col solo intento di dimostrare l’indimostrabile, cioè che, nella loro scuola, tutti gli insegnanti godono di ottima salute e l’usura psicofisica è inesistente, semmai è appannaggio degli altri istituti.
Ci limiteremo a dire che dalla somministrazione dei questionari discende solo un immane aggravio burocratico di cui gli insegnanti farebbero volentieri a meno. A dispetto dei luoghi comuni sui docenti, la loro professione è psicofisicamente usurante. A testimoniarlo sono le migliaia di studi scientifici che convergono nel sostenere che tale usura è: 1) presente in tutti i Paesi e prescinde dal sistema scolastico adottato; 2) non differisce nei diversi livelli d’insegnamento (infanzia, primaria, secondaria); 3) si manifesta in ugual misura in docenti uomini e donne, determinando l’annullamento delle pur cospicue differenze fisiologiche ormonali tra i due generi (F 2,5 : M 1) nell’esposizione alla patologia ansioso-depressiva.
Ma la professione dell’insegnante ha una peculiarità unica rispetto a tutte le altre helping profession: la tipologia del rapporto con l’utenza. Non esiste infatti altra professione d’aiuto in cui il rapporto con l’utenza – e per giunta la medesima utenza – avvenga in maniera così insistita, reiterata e protratta per tutti i giorni, più ore al giorno, cinque giorni alla settimana, nove mesi all’anno, per cicli di tre o cinque anni. In questa particolarissima e unica tipologia di rapporto continuativo/ossessivo, per di più, l’insegnante invecchia, mentre lo studente/alunno (col rinnovarsi dei cicli di studio) ringiovanisce: una sorta di “effetto Dorian Gray capovolto”.
Si consideri poi la permanente asimmetria del rapporto medesimo che condizionerà l’insegnante, rendendolo poco propenso a sviluppare una relazione tra pari (soprattutto coi colleghi), per condividere e contrastare efficacemente il disagio mentale. Questo rapporto asimmetrico, unico e atipico, è il principale responsabile universale dell’usura psichica dell’insegnante in tutto il mondo. Sebbene si finga ancora di non saperlo e si liquidi la questione col termine di burnout, anziché studiare seriamente le patologie professionali, che vedono oggi saldamente al primo posto le patologie psichiatriche, seguite da quelle oncologiche imputabili allo stress cronico che determina l’increzione di alti livelli di cortisolo.
Torniamo ora al burnout e vediamo di capire bene di cosa realmente si tratta. È una sindrome? Una patologia? Un malessere professionale? Nulla di tutto ciò. Ripercorriamone perciò, brevemente, la storia: il termine inglese burnoutviene coniato per la prima volta dallo psicologo Freudenberg nel 1975 e, letteralmente, significa “bruciato” o “esaurito”. Si riferisce inoltre, esclusivamente, alle cosiddette “helping profession” o professioni di aiuto (insegnanti, sanitari, religiosi, medici, psicologi etc). Già da questo dovrebbe essere facile desumere che DS, ATA e DSGA non sono a rischio burnout poiché non rientrano fra le helping profession. Nel tempo, gli psicologi stabiliscono che il burnout è caratterizzato da una triplice sintomatologia: 1) esaurimento fisico ed emotivo/psichico; 2) atteggiamento distaccato, apatico e cinico nei confronti dell’interlocutore (alunno/studente); 3) frustrazione per la mancata realizzazione delle proprie aspettative. Lo psicologo americano Farber introduce poi un quarto elemento descritto come (4) perdita dell’autocontrollo e del controllo degli impulsi. Mentre sono oramai migliaia in tutto il mondo gli studi clinici, effettuati dagli psicologi, che comprovano l’imponente logoramento psichico degli insegnanti, si contano sulle dita di una mano le pubblicazioni mediche che però sono largamente significative: Francia, UK e Germania ci dicono che la categoria professionale degli insegnanti è quella a più alto rischio suicidario e che i prepensionamenti per motivi di salute presentano in larga maggioranza una diagnosi psichiatrica.
Nonostante ciò, il burnout viene ignorato dalla medicina fino alla pubblicazione del manuale diagnostico ICD 11 nel gennaio 2022. Con estrema cautela e tempi dilatati, il burnout viene riconosciuto non come sindrome, né come patologia, ma come semplice “condizione” con tutto ciò – di negativo – che ne consegue in termini di disconoscimento, mancata prevenzione e negato indennizzo al lavoratore. Ci troviamo così all’alba del terzo millennio senza che siano ancora state riconosciute, istituzionalmente, le malattie professionali degli insegnanti mentre le pubblicazioni scientifiche (anche in Italia nelle pubblicazioni di Milano, Torino e Verona), mostrano come prima causa di inidoneità all’insegnamento le patologie psichiatriche seguite da quelle oncologiche.
Non sfugga ora un particolare fondamentale: gli studi clinici italiani di cui sopra hanno esaminato gli “Accertamenti Medici Collegiali” che non si sono mai trastullati con non-diagnosi di comodo (leggi “burnout” che entra a far parte come “condizione” nell’ICD 11 solo nel 2022), ma hanno posto vere e proprie diagnosi mediche come frutto del lavoro di una commissione medica pubblica e non di un singolo medico. Le suddette diagnosi psichiatriche, nulla hanno a che vedere col burnout ma spaziano dai disturbi ansioso-depressivi a quelli ansiosi, dai disturbi dell’adattamento a quelli bipolari, dai disturbi di personalità alle schizofrenie etc etc.
Liquidare questa complessa realtà etichettandola come semplice burnout o, peggio, col criptico e ambiguo neologismo inglese di “work related stress” (da noi malamente tradotto come stress lavoro correlato) sembra voler mistificare la verità a ogni costo. Poco interessa il motivo, sia esso paura o semplice convenienza. Istituzioni e politica (governi di sinistra soprattutto per prevalente durata, ma anche di destra – come l’attuale – e governi tecnici come quello Monti) sono stati concordi nell’ignorare le malattie professionali degli insegnanti: forse perché credevano di risparmiare sulla prevenzione (nemmeno un euro è stato sinora investito in barba al Testo Unico sulla sicurezza dei lavoratori); forse per non pagare indennizzi ai lavoratori malati; forse per poter improvvidamente varare ulteriori riforme previdenziali “al buio” (senza cioè valutare la salute professionale dei docenti) come sempre fatto dal 1992 in avanti; … Ma se oggi le istituzioni, nonché la politica di destra e di sinistra, sono chiamate urgentemente a porre rimedio alla loro imbarazzante latitanza, i sindacati non possono che battersi il petto ed adoperarsi subito per contribuire al riconoscimento ufficiale delle malattie professionali degli insegnanti tutelando la salute dei lavoratori.
Porre rimedio a questo “burnout istituzionale” non richiede poi molti passaggi (dal sottoscritto suggeriti al ministro del MIM fin dall’inizio del suo mandato):
- Avviare uno studio epidemiologico retrospettivo nazionale di conferma sulle inidoneità all’insegnamento per causa di salute (dati 2004-24 disponibili presso il MEF);
- Abolire l’uso di questionari per la prevenzione dell’usura psicofisica e strutturare formazione per docenti omogenea – la stessa in tutti gli istituti – inerente a: malattie professionali docenti; prevenzione primaria, sintomatologia; diritti e doveri nell’accertamento medico collegiale;
- Supporto per i Dirigenti Scolastici: formazione sulle loro incombenze medico-legali; ricorso all’accertamento medico d’ufficio; stesura relazione ex art. 15 dpr 461/01.
Resta ben inteso che senza prima intraprendere alcuna azione sopra descritta, non sarà assolutamente possibile avviare alcuna riforma previdenziale. La valutazione della salute professionale della categoria resta il primo requisito per varare un provvedimento oculato, anche se, finora, non è mai stato osservato.