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L’elezione dei Presidenti non risolve il rebus Governo

Andrea Spuntarelli di Andrea Spuntarelli
24 Marzo 2018 21:05
in Commenti, Governo, Parlamento
Tempo di lettura: 4 minuti
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L’elezione dei Presidenti non risolve il rebus Governo

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il neo presidente della Camera, Roberto Fico

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L’accordo su Casellati e Fico fa partire la Legislatura, ma si annuncia lunga la partita per Palazzo Chigi. Necessari passi indietro dai leader di tutti gli schieramenti

di Andrea Spuntarelli

Con l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico alle presidenze di Camera e Senato può dirsi definitivamente avviata la XVIII Legislatura.

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L’accordo tra centrodestra e Movimento 5 Stelle ha portato alla soluzione del rebus in tempi più rapidi di quanto si potesse prevedere alla vigilia, ma tuttavia gli avvenimenti degli ultimi giorni non lasciano spazio all’ottimismo per quanto riguarda la partita aperta dalle dimissioni del premier Paolo Gentiloni: quella per la formazione del nuovo Governo. Al di là di annunci e smentite di rito, conditi da prove di forza a uso e consumo dei sostenitori dei leader, la realtà dei fatti è che non solo, come è chiaro dal 5 marzo, nessuno schieramento si presenterà al Quirinale con i numeri per poter dare vita in autonomia a una maggioranza in Parlamento, ma le votazioni per i Presidenti delle Camere hanno pure evidenziato divisioni e limiti d’azione nei tre blocchi in campo.

Partendo dalla coalizione di centrodestra, il braccio di ferro tra Forza Italia e Lega sul nome di Paolo Romani e la decisione di Matteo Salvini di votare al secondo scrutinio la senatrice di FI Anna Maria Bernini all’insaputa del partito di quest’ultima, in modo da non mettere fuori gioco l’M5S, segnano il definitivo passaggio di consegne nella leadership tra Silvio Berlusconi e il segretario leghista.

Come è apparso chiaro, la successione nel campo conservatore non sarà indolore né priva di ripercussioni, dal momento che Berlusconi continuerà anche nelle prossime settimane a cercare di rompere l’asse di fatto tra Salvini e Luigi Di Maio, che rischia di farlo rimanere vittima di un ‘effetto tenaglia’. Da questo, infatti, deriva la possibilità per l’ex Cavaliere di ricoprire un ruolo politico di primo piano nonostante la sconfitta elettorale e anche la tenuta stessa di Forza Italia, tra le cui file la fine dell’egemonia berlusconiana potrebbe portare a sviluppi inaspettati in termini di fuoriuscite verso la Lega.

Non è un mistero che Matteo Salvini punti nel medio termine a lanciare, sfruttando anche il fattore anagrafico, un’Opa sul centrodestra per diventarne dominus indiscusso, ma nell’immediato dovrà giocare con maggiore accortezza le proprie carte. Alla sua prima prova da pilota di una macchina dal 38% dei consensi, ha rischiato seriamente di portarla fuori pista dopo poche curve e, pertanto, di mettere a rischio le numerose amministrazioni locali in capo al suo schieramento. Inoltre, senza l’appoggio degli alleati il leader del Carroccio passerebbe dalla condizione di segretario della prima forza della coalizione più votata dagli italiani a quella di responsabile della terza lista del Paese dopo 5 Stelle e Pd, e dunque un’ipotetica nonché molto difficile intesa governativa con Di Maio lo relegherebbe nella veste di junior partner.

Sul fronte dei pentastellati, la conquista della terza carica dello Stato rappresenta senza dubbio un successo rilevante per un Movimento che solo 5 anni fa rifiutava qualunque forma di collaborazione con gli altri partiti. In ogni caso, l’arrivo di Fico alla guida di Montecitorio è stato reso possibile più dalla sponda offerta fino alla fine dai leghisti che non dalle mosse di Luigi Di Maio e dei capigruppo Danilo Toninelli e Giulia Grillo. L’indisponibilità a discutere con Silvio Berlusconi per non rilegittimarlo e i veti a priori su alcune candidature hanno difatti riproposto una condotta oltranzista che poco si adatta alle dinamiche del Parlamento, e che hanno portato l’M5S a un passo dal ritrovarsi isolato in una trattativa approcciata forse con eccessivo ottimismo.

Dunque, nell’ottica della formazione del futuro Esecutivo sfoggiare posizioni inflessibili all’insegna di affermazioni come “si dovrà discutere sui nostri temi” o “non ci sono alternative a Di Maio presidente del Consiglio” (a onor del vero, anche gli esponenti del centrodestra si sono detti non disponibili a prescindere dal  loro programma e dall’approdo di Salvini a Palazzo Chigi) difficilmente aiuterà il Movimento 5 Stelle a dimostrare al Capo dello Stato di essere nella posizione migliore per ricevere l’incarico.

Al tempo stesso, l’unico canale di dialogo che Luigi Di Maio sembra aver curato finora, quello con Matteo Salvini, è decisamente improbabile che possa condurre a un Governo, se non con l’unico scopo di tornare in tempi rapidi al voto, per una sorta di ‘ballottaggio finale’ M5S-Lega. Né il capo politico dei grillini né il segretario del Carroccio possono infatti permettersi di sostenere maggioranze durature che non attuino le rispettive proposte cardine: il reddito di cittadinanza invocato nel Mezzogiorno e la flat tax sposata dal Nord.

Per quanto riguarda invece il Partito Democratico, sarà da vedere se lo ‘splendido isolamento’ post 4 marzo continuerà a essere la linea tenuta per preservare un’unità ormai di facciata, in un partito senza guida (sarà importante vedere se Matteo Renzi riuscirà a imporre due capigruppo a lui vicini) e che tutto auspica tranne che nuove elezioni. Continuare a proclamarsi all’opposizione quando ancora non è chiaro se si formerà una maggioranza appare una mossa dettata da valutazioni non improntate all’interesse dell’Italia, come se bastasse allontanarsi da Palazzo Chigi per recuperare in futuro i voti perduti. Non c’è dubbio che non spetti al Pd, dati i suoi limitati numeri  tra Camera e Senato, prendere iniziative e che gli elettori abbiano espresso un giudizio molto negativo sulle esperienze governative dei dem, ma chiamarsi fuori dai giochi ancor prima che inizino rende la sua presenza in Parlamento sostanzialmente sterile.

In definitiva, il completamento di un puzzle così intricato continua a dipendere solo da due scenari: la scomposizione di uno dei tre blocchi per dare vita a nuove alleanze o l’unione tra almeno due dei campi in gioco; tertium non datur. Per raggiungere quest’obiettivo i Gruppi e i loro leader dovranno necessariamente fare concessioni e passi indietro dalle rispettive posizioni di partenza, a partire dal nome per la Presidenza del Consiglio. A meno di sorprese ora non all’orizzonte, sarà lungo l’iter per individuare il successore di Gentiloni e non sarà secondario il ruolo che giocherà Sergio Mattarella durante e dopo le consultazioni al Quirinale, che potrebbero iniziare già prima di Pasqua.

Tags: CameraGovernoQuirinalesenato
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