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Home Giustizia

Nel Paese delle leggi inutili, il Covid rappresenta l’ultima spiaggia

Antonella Trentini di Antonella Trentini
27 Gennaio 2021 07:10
in Giustizia, Istruzione
Tempo di lettura: 5 minuti
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Nel Paese delle leggi inutili, il Covid rappresenta l’ultima spiaggia
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E’ noto sin dalla storia romana che i maggiori cambiamenti (nelle istituzioni, nella società, nella vita economica, nel modo di vivere e di pensare), seguono alle crisi più profonde: fu così per il tardo romano impero, sfociato nel Medioevo, fu così per la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, e via via fino alle grosse crisi dell’epoca moderna e contemporanea. Questa emergenza Covid deve allora essere vista come un’opportunità, un modo per riannodare i fili valoriali là dove erano stati lasciati, sfoderando le armi dei valori, delle regole morali e della competenza. Esiste, infatti, un tema che non è evidenziato nei vari rapporti e nelle tesi abolizioniste sulla giustizia amministrativa: la qualità e quantità delle leggi, sempre più scadenti e sempre più numerose.

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Qui, tanto la PA quanto il cittadino possono trovarsi in difficoltà e adire il giudice amministrativo per avere chiarezza. Applicare norme malfatte può comportare procedimenti a loro volta imperfetti o rallentati. Per rendere più semplice, accessibile e meno costosa la tutela innanzi alla PA basterebbero poche mosse: eliminare molte norme inutili ed emanare poche e chiare leggi, solo qualora necessarie; rispolverare gli istituti di “tutela in via amministrativa”, caduti un po’ in disuso, ovvero il ricorso gerarchico e in opposizione (resiste solo il ricorso straordinario al Capo dello Stato, divenuto, nei fatti, un ricorso giurisdizionale più che amministrativo, non foss’altro per la sua onerosità).

Invece di “rispolverare” tesi distruttive, occorrerebbe essere costruttivi e, nell’ambito della Pa, ravvivare queste possibilità per abbattere certamente i tempi e i costi della giustizia a carico dei cittadini e, forse, ciò costituirebbe un primo passo verso la rivoluzione 3.0 della PA. Dalla deflagrazione di quella bomba nota sotto il nome di “Tangentopoli” in poi, si sono susseguiti testi normativi e modifiche, che non solo non hanno prodotto i risultati sperati ma hanno, via via, peggiorato la situazione, soprattutto in termini di deprofessionalizzazione, ed in senso opposto alle necessità, di sburocratizzazione, professionalità, anticorruzione. E’ qui che le riforme della P.A., devono tornare a coniugarsi con il “concetto di ruolo”. Colui che riveste un “ruolo” deve rispondere a specifiche aspettative, “aspettative vincolanti”, la cui violazione comporta sanzioni, e “aspettative morali”, che si traducono in comportamenti deontologici e valoriali. Al contrario, ad oggi le peggiori riforme che hanno interessato la pubblica amministrazione sono state dirette a “sprofessionalizzare” la dirigenza, in nome dell’interscambiabilità e della gestionalità, andando contro la specifica analisi commissionata a metà degli anni ‘90 dall’allora presidente del Consiglio Luciano Violante e ripresa dal ministro Patroni Griffi nel 2012. L’analisi condotta dai tre saggi (i professori Cassese, amministrativista di Roma, Pizzorno, sociologo, e Arcidiacono, costituzionalista dell’Università di Catania), chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito dal Presidente della Camera dei Deputati, Luciano Violante, con decreto n. 211 del 30.9.1996, rese un’immagina molto chiara delle necessità della pubblica amministrazione affinché fosse efficiente, efficace e, soprattutto, permeabile alla corruzione.Il Rapporto che i tre saggi hanno redatto sul tema, in un momento storico in cui si usciva dalla palude lasciata da quel fenomeno patologico noto col nome di “Tangentopoli”, è emblematico: “una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finché le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza”. Le riforme, come si è detto, hanno invece perseguito l’opposto disegno: eliminare le professionalità tout court. Via ingegneri e architetti che dirigono uffici tecnici; via commercialisti che dirigono uffici entrate; via tutti. Solo competenze gestionali indipendentemente dalla preparazione specifica, nel nome della “rotazione”.

L’esperienza di questi anni ha tuttavia dimostrato che, eliminando le competenze dei professionisti sul caso concreto, il risultato è stato l’”immobilismo burocratico”, trattato come patologia,nel recente DL n. 76/2020 (cd. DL Semplificazioni), senza tuttavia affrontare la diagnosi e, quindi, senza approntare cure, la più semplice delle quali è mettere le persone giuste al posto giusto.

Come si vede il tema è attualissimo. Non a caso la Corte dei Conti che si vorrebbe eliminare, ha certificato da poco che “la corruzione, il malaffare e l’illegalità sono ancora molto forti, molto più di come appare. Sono fenomeni notevolmente presenti nel Paese, le cui dimensioni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono, spesso faticosamente, alla luce”.

Ecco il punto. Occorre tornare a valorizzare la ricchezza di risorse umane di cui è dotata la P.A., non depotenziarla e mortificarla a favore di consulenze esterne o di società che svolgono i servizi che può curare direttamente la P.A. Occorre reinternalizzare, non esternalizzare. Una parola magica, reinternalizzare, che significa in primo luogo opportunità di lavoro. I capitali necessari ci sono, prendiamoli dal Recovery Fund. Occorre fare una riforma che ripercorra la virtuosità ed economicità in grado di valorizzare ed attrarre i migliori professionisti, capaci, competenti, digitalizzati, a cui trasmettere senso di appartenenza per ricoprire il proprio ruolo di riferimento tecnico affidabile, di sentinelle della legalità, contribuendo umilmente, ma con professionalità e dedizione, all’accrescimento del funzionamento della pubblica amministrazione e alla diminuzione dei fenomeni di corruzione.

Oscar Wilde diceva che “il senso del dovere è un’orribile malattia”, eppure il senso del dovere di chi crede fermamente nei valori di una pubblica amministrazione seria, capace, efficace ed efficiente, ci spinge a non arrenderci, poiché non possiamo consentire che il nostro “datore di lavoro” che è anche la P.A. che ci serve come cittadini, sia parte di un Paese “a civiltà limitata” qual è un Paese che si regge sull’incompetenza.

Il tutto nella consapevolezza che un vero piano efficace di ricostruzione e riforma della P.A. non può fondarsi su task force formate solo da “professori” di grande preparazione teorica o magistrati che faticano a conoscere la P.A. anche quando costituisce una delle parti del giudizio. La Pubblica amministrazione deve ritornare a reperire il professionista giusto per il posto da ricoprire, valorizzarlo e pagarlo adeguatamente per attrarre i migliori, per trasformare una “brutta stagione” in una nuova fase storica in cui la speranza e l’entusiasmo tornino a rappresentare il nostro Paese perché la storia ci insegna che proprio dalle crisi peggiori sono nati i frutti migliori.

 

Tags: covidgiustiziaPAPubblica AmministrazioneRiforme
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